Omosessualità non è una malattia da curare

Noi, psicologi, psichiatri, psicoterapeuti, psicoanalisti, studiosi e ricercatori nel campo della salute mentale e della formazione, condanniamo ogni tentativo di patologizzare l’omosessualità, che l’American Psychological Association definisce una “variante naturale normale e positiva della sessualità umana” e l’Organizzazione Mondiale della Sanità una “variante naturale del comportamento umano“.

Joseph Nicolosi, fondatore del NARTH (Associazione per la Ricerca e la Terapia dell’Omosessualità), sostiene invece, contro ogni evidenza scientifica, che l’omosessualità è “un disturbo mentale che può essere curato”, è “un fallimento dell’identificazione di genere” ed è “contraria alla vera identità dell’individuo”.

Queste teorie, le terapie “riparative” che su di esse si basano, e ogni teoria filosofica o religiosa che pretenda di definire l’omosessualità come intrinsecamente disordinata o patologica, non solo incentivano il pregiudizio antiomosessuale, ma screditano le nostre professioni e delegittimano il nostro impegno per l’affermazione di una visione scientifica dell’omosessualità.

Un terapeuta con pregiudizi antiomosessuali può rinforzare i sentimenti negativi di colpa, disistima e vergogna che molti omosessuali provano, e così alimentare l’omofobia interiorizzata e il minority stress, danneggiando spesso irrimediabilmente la salute mentale del soggetto.

La persona omosessuale che chiede di essere “guarita” (e i familiari spesso coinvolti) va ascoltata ed aiutata a capire le ragioni della sua difficoltà ad accettarsi, ma non va ingannata con la promessa di terapie miracolistiche prive di efficacia dimostrata.

Ricordiamo che gli psicologi italiani sono tenuti al rispetto degli articoli 3, 4, 5 del Codice Deontologico, che ribadiscono, tra l’altro, come lo psicologo debba lavorare per promuovere il benessere psicologico, astenersi dall’imporre il suo sistema di valori e aggiornare continuamente le sue conoscenze scientifiche.
Ricordiamo anche che le più importanti associazioni scientifiche e professionali internazionali, come l’American Psychological Association e l’American Psychiatric Association, raccomandano di astenersi dal tentativo di modificare l’orientamento sessuale di un individuo e (come recentemente ribadito dal Report of the Task Force on Appropriate Therapeutic Responses to Sexual Orientation dell’ American Psychological Association, Washington, D.C., 2009) affermano che le terapie di “conversione” o “riparazione” dell’omosessualità sono basate su teorie prive di validità scientifica e non hanno il sostegno di ricerche empiriche attendibili.

È nostro dovere affermare con forza che qualunque trattamento mirato a indurre il/la paziente a modificare il proprio orientamento sessuale si pone al di fuori dello spirito etico e scientifico che anima le nostre professioni, e in quanto tale deve essere segnalato agli organi competenti, cioè agli ordini professionali.

* Questo comunicato è stato redatto in occasione della presenza in Italia di Joseph Nicolosi al convegno “Identità di genere e libertà” (maggio 2010).

http://www.noriparative.it

OMOSESSUALITA’, FIGLI E GENITORI

Intervista alla psicologa Dott.ssa Cristina Pavia sul disagio di chi non si sente accettato dalla società. I segnali allarmanti e l’importante ruolo della condivisione famigliare

I suicidi giovanili provocati dall’omofobia si stanno replicando con una sequenza allarmante. Il fatto di cronaca più recente ha riguardato Simone: uno studente in Medicina che, a Roma, a soli ventuno anni, ha deciso di porre fine alla propria tormentata esistenza. Col suo corpo, dall’undicesimo piano di un palazzo abbandonato, è volata una lettera che non lascia dubbi sul motivo del gesto.

Parole che non possono o, meglio, non devono passare inosservate nella mente di noi tutti, genitori e non: «L’Italia è un paese libero ma ci sono gli omofobi. Chi ha questi atteggiamenti deve fare i conti con la propria coscienza». Nella società odierna, in cui perfino la Chiesa sta mostrando inaspettati segnali di apertura verso divorziati e omosessuali, tutto questo sembra ancora più incredibile. Ai genitori Simone aveva detto che sarebbe uscito con gli amici e ritornato a casa più tardi. Quegli stessi genitori sono stati i primi a stupirsi del gesto, poiché completamente ignari dell’orientamento omosessuale del figlio. Come può essere accaduto? Abbiamo rivolto questa e altre domande alla dottoressa Cristina Pavia (http://cristinapavia.net), di Bologna, psicologa e counselor nelle scuole secondarie di primo grado.

Potrebbe essere stata una semplice mancanza di dialogo genitori-figlio a tenere madre e padre lontani dall’interiorità sessuale di Simone?

«Simone non aveva mai confidato la propria omosessualità né al padre né alla madre perché probabilmente temeva la loro reazione. I genitori sono le persone più vicine e presenti nella vita di un adolescente: un vero e proprio modello di vita per colui o colei che si appresta a diventare un uomo o una donna. È pertanto fondamentale in primis la loro comprensione – se non proprio l’accettazione – dell’orientamento sessuale. Se così non è, l’adolescente rischia di chiudersi sempre più in se stesso. Il fatto di non rispecchiare il modello filiale che i genitori si aspetterebbero da lui/lei provoca profondi sensi di colpa nei loro confronti; spesso con conseguenze molto pesanti. La tragedia di Simone tuttavia è stata scatenata dagli insulti che aveva ricevuto ripetutamente durante un tirocinio universitario. La responsabilità deve quindi essere attribuita soprattutto alla società odierna, che ancora tende a considerare l’omosessualità un motivo di discriminazione».

La consapevolezza della propria omosessualità è il traguardo di un percorso interiore lungo e spesso tortuoso. A quale età i genitori possono scorgerne i primi segni?

«Non esiste un momento preciso nel quale l’omosessualità si manifesta dichiaratamente nel fanciullo prima, o nell’adolescente poi. I primi ormoni sessuali vengono prodotti in momenti differenti a seconda del sesso: nelle femmine gli estrogeni si manifestano tra gli 11 e i 12 anni; nei maschi, gli androgeni, un anno più tardi. I segnali della loro presenza sono inequivocabilmente riconoscibili: nonostante si deterga regolarmente, l’adolescente viene improvvisamente invaso da un persistente odore acre in determinate parti del corpo».

Quali cambiamenti avvengono durante la pubertà e come si possono riconoscere i primi segnali dell’omosessualità?

«L’adolescente sperimenta le prime pulsioni sessuali legate all’attrazione fisica. I maschi possono riconoscere un ancestrale segnale di omosessualità – tutta da verificare – nella mancanza di attrattiva corporea verso le persone di sesso opposto; spesso accompagnata da una maggiore identificazione nell’universo femminile rispetto a quello maschile. Questi ragazzi sono infatti considerati dalle coetanee degli ottimi confidenti: veri e propri amici del cuore che offrono loro consigli senza secondi fini, ovvero avance o molestie sessuali. I primi segnali dell’omosessualità femminile si manifestano spesso in modo meno evidente. La simbiosi vissuta in momenti anche intimi condivisi con le coetanee – le amiche del cuore – non ne è infatti un sintomo; ma semplicemente la ricerca della loro nuova identità, oramai lontana dalla fanciullezza».

Le femmine vivono la consapevolezza dell’omosessualità in maniera differente rispetto ai maschi?

«La presa di coscienza personale è la stessa. Cambia invece l’impatto sociale: il pensiero umano riguardo l’omosessualità richiama infatti l’immagine dell’atto fisico vero e proprio; e la raffigurazione di quello maschile viene maggiormente rifiutata. Inoltre spesso la collettività è portata a ritenere che l’omosessuale uomo sia meno aderente ai modelli sociali di mascolinità».

Come e da chi possono essere aiutati questi adolescenti?

«Occorre innanzitutto capire se essi desiderino realmente essere aiutati. Personalmente ho incontrato giovani che hanno reagito a questa consapevolezza in maniera molto diversa: per le motivazioni spiegate, le femmine tendono generalmente ad accettare la loro condizione maggiormente rispetto ai maschi. Partendo dal presupposto che l’omosessualità non è una malattia, una cosa è consolidare e interiorizzare, un’altra è accettare. Se purtroppo si soddisfano le suddette condizioni di non accettazione, diventa assolutamente necessario chiedere aiuto a uno psicologo: lo si deve a se stessi, per evitare di condurre un’esistenza sofferente o, peggio, di commettere gesti estremi. Ai giovani che, superando timidezza e riserbo, si rivolgono a me, offro una consulenza sulla base dei loro bisogni; sempre nel rispetto del segreto professionale

Quali aspetti giocano un ruolo fondamentale nell’accettazione dell’omosessualità?

«Le peculiarità caratteriali ma anche – e soprattutto – l’ambiente in cui si vive. Se i genitori in primis non riescono ad accettare il diverso orientamento sessuale, se nemmeno la cerchia di amici lo rispetta e, anzi, schernisce il soggetto – anche pubblicamente –, il disagio diventa profondo e apparentemente insuperabile. Possono addirittura comparire disturbi mentali veri e propri. Ad esempio, nella disforia di genere, la persona ha una forte e persistente identificazione nel sesso opposto a quello biologico; ovvero quello assegnato anagraficamente alla nascita».

Come possono essere aiutati i genitori che, pur desiderandolo, non riescono ad accettare l’omosessualità del/lo figlio/a?

«Esistono dei gruppi di ascolto formati da coppie di genitori con la stessa problematica da condividere: l’accettazione dell’omosessualità del/la figlio/a, che viene partecipata sotto forma di dibattito strutturato con il supporto di uno psicologo. I genitori devono sapere – prendendone coscienza – che queste inquietudini possono essere superate più facilmente confrontandosi con persone che vivono le loro stesse angosce. Per fortuna, oggi vi è più attenzione sulla questione rispetto al passato».

Lei crede che i social network abbiano contribuito ad acutizzare la discriminazione sessuale?

«Purtroppo tramite i social network, vengono messe “in piazza” anche questioni riservate come orientamenti sessuali e identità di genere. La rete, costituendo un mondo virtuale, acutizza quello che, nel caso di specie, è denominato bullismo omofobico: chi ha un differente orientamento sessuale diviene vittima di danni psicologici, fisici e morali anche ingenti; tanto da indurli addirittura a compiere per l’appunto gesti sconsiderati. Più grave ancora è il caso in cui il bullo entra nel profilo virtuale della vittima, postando apertamente un coming out su una dichiarata omosessualità che spesso è invece inesistente. In ogni caso, si tratta di reati penali che prevedono la reclusione: è giusto che i ragazzi – ma soprattutto i loro genitori – ne siano consapevoli».

Emanuela Susmel

(LucidaMente, anno VIII, n. 96, dicembre 2013)