I suicidi giovanili provocati dall’omofobia si stanno replicando con una sequenza allarmante. Il fatto di cronaca più recente ha riguardato Simone: uno studente in Medicina che, a Roma, a soli ventuno anni, ha deciso di porre fine alla propria tormentata esistenza. Col suo corpo, dall’undicesimo piano di un palazzo abbandonato, è volata una lettera che non lascia dubbi sul motivo del gesto.
Parole che non possono o, meglio, non devono passare inosservate nella mente di noi tutti, genitori e non: «L’Italia è un paese libero ma ci sono gli omofobi. Chi ha questi atteggiamenti deve fare i conti con la propria coscienza». Nella società odierna, in cui perfino la Chiesa sta mostrando inaspettati segnali di apertura verso divorziati e omosessuali, tutto questo sembra ancora più incredibile. Ai genitori Simone aveva detto che sarebbe uscito con gli amici e ritornato a casa più tardi. Quegli stessi genitori sono stati i primi a stupirsi del gesto, poiché completamente ignari dell’orientamento omosessuale del figlio. Come può essere accaduto? Abbiamo rivolto questa e altre domande alla dottoressa Cristina Pavia di Bologna, psicologa e counselor nelle scuole medie.
Potrebbe essere stata una semplice mancanza di dialogo genitori-figlio a tenere madre e padre lontani dall’interiorità sessuale di Simone?
«Simone non aveva mai confidato la propria omosessualità né al padre né alla madre perché probabilmente temeva la loro reazione. I genitori sono le persone più vicine e presenti nella vita di un adolescente: un vero e proprio modello di vita per colui o colei che si appresta a diventare un uomo o una donna. È pertanto fondamentale in primis la loro comprensione – se non proprio l’accettazione – dell’orientamento sessuale. Se così non è, l’adolescente rischia di chiudersi sempre più in se stesso. Il fatto di non rispecchiare il modello filiale che i genitori si aspetterebbero da lui/lei provoca profondi sensi di colpa nei loro confronti; spesso con conseguenze molto pesanti. La tragedia di Simone tuttavia è stata scatenata dagli insulti che aveva ricevuto ripetutamente durante un tirocinio universitario. La responsabilità deve quindi essere attribuita soprattutto alla società odierna, che ancora tende a considerare l’omosessualità un motivo di discriminazione».
La consapevolezza della propria omosessualità è il traguardo di un percorso interiore lungo e spesso tortuoso. A quale età i genitori possono scorgerne i primi segni?
«Non esiste un momento preciso nel quale l’omosessualità si manifesta dichiaratamente nel fanciullo prima, o nell’adolescente poi. I primi ormoni sessuali vengono prodotti in momenti differenti a seconda del sesso: nelle femmine gli estrogeni si manifestano tra gli 11 e i 12 anni; nei maschi, gli androgeni, un anno più tardi. I segnali della loro presenza sono inequivocabilmente riconoscibili: nonostante si deterga regolarmente, l’adolescente viene improvvisamente invaso da un persistente odore acre in determinate parti del corpo».
Quali cambiamenti avvengono durante la pubertà e come si possono riconoscere i primi segnali dell’omosessualità?
«L’adolescente sperimenta le prime pulsioni sessuali legate all’attrazione fisica. I maschi possono riconoscere un ancestrale segnale di omosessualità – tutta da verificare – nella mancanza di attrattiva corporea verso le persone di sesso opposto; spesso accompagnata da una maggiore identificazione nell’universo femminile rispetto a quello maschile. Questi ragazzi sono infatti considerati dalle coetanee degli ottimi confidenti: veri e propri amici del cuore che offrono loro consigli senza secondi fini, ovvero avance o molestie sessuali. I primi segnali dell’omosessualità femminile si manifestano spesso in modo meno evidente. La simbiosi vissuta in momenti anche intimi condivisi con le coetanee – le amiche del cuore – non ne è infatti un sintomo; ma semplicemente la ricerca della loro nuova identità, oramai lontana dalla fanciullezza».
Le femmine vivono la consapevolezza dell’omosessualità in maniera differente rispetto ai maschi?
«La presa di coscienza personale è la stessa. Cambia invece l’impatto sociale: il pensiero umano riguardo l’omosessualità richiama infatti l’immagine dell’atto fisico vero e proprio; e la raffigurazione di quello maschile viene maggiormente rifiutata. Inoltre spesso la collettività è portata a ritenere che l’omosessuale uomo sia meno aderente ai modelli sociali di mascolinità».
Come e da chi possono essere aiutati questi adolescenti?
«Occorre innanzitutto capire se essi desiderino realmente essere aiutati. Personalmente ho incontrato giovani che hanno reagito a questa consapevolezza in maniera molto diversa: per le motivazioni spiegate, le femmine tendono generalmente ad accettare la loro condizione maggiormente rispetto ai maschi. Partendo dal presupposto che l’omosessualità non è una malattia, una cosa è consolidare e interiorizzare, un’altra è accettare.Se purtroppo si soddisfano le suddette condizioni di non accettazione, diventa assolutamente necessario chiedere aiuto a uno psicologo: lo si deve a se stessi, per evitare di condurre un’esistenza sofferente o, peggio, di commettere gesti estremi. Ai giovani che, superando timidezza e riserbo, si rivolgono a me, offro una consulenza sulla base dei loro bisogni; sempre nel rispetto del segreto professionale (http://cristinapavia.net/consulenza-online/omosessualita-non-e-una-malattia-da-curare/).
Quali aspetti giocano un ruolo fondamentale nell’accettazione dell’omosessualità?
«Le peculiarità caratteriali ma anche – e soprattutto – l’ambiente in cui si vive. Se i genitoriin primis non riescono ad accettare il diverso orientamento sessuale, se nemmeno la cerchia di amici lo rispetta e, anzi, schernisce il soggetto – anche pubblicamente –, il disagio diventa profondo e apparentemente insuperabile. Possono addirittura comparire disturbi mentali veri e propri. Ad esempio, nella disforia di genere, la persona ha una forte e persistente identificazione nel sesso opposto a quello biologico; ovvero quello assegnato anagraficamente alla nascita».
Come possono essere aiutati i genitori che, pur desiderandolo, non riescono ad accettare l’omosessualità del/lo figlio/a?
«Esistono dei gruppi di ascolto formati da coppie di genitori con la stessa problematica da condividere: l’accettazione dell’omosessualità del/la figlio/a, che viene partecipata sotto forma di dibattito strutturato con il supporto di uno psicologo. I genitori devono sapere – prendendone coscienza – che queste inquietudini possono essere superate più facilmente confrontandosi con persone che vivono le loro stesse angosce. Per fortuna, oggi vi è più attenzione sulla questione rispetto al passato».
Lei crede che i social network abbiano contribuito ad acutizzare la discriminazione sessuale?
«Purtroppo tramite i social network, vengono messe “in piazza” anche questioni riservate come orientamenti sessuali e identità di genere. La rete, costituendo un mondo virtuale, acutizza quello che, nel caso di specie, è denominato bullismo omofobico: chi ha un differente orientamento sessuale diviene vittima di danni psicologici, fisici e morali anche ingenti; tanto da indurli addirittura a compiere per l’appunto gesti sconsiderati. Più grave ancora è il caso in cui il bullo entra nel profilo virtuale della vittima, postando apertamente un coming out su una dichiarata omosessualità che spesso è invece inesistente. In ogni caso, si tratta di reati penali che prevedono la reclusione: è giusto che i ragazzi – ma soprattutto i loro genitori – ne siano consapevoli».
Emanuela Susmel
(LucidaMente, anno VIII, n. 96, dicembre 2013)